Ecco perché abbiamo fatto bene a non prendere la macchina: andiamo all’appuntamento con Paul e Coby e, sorpresa, una gomma è a terra. Su queste strade così malmesse è relativamente facile prendere un chiodo, o anche più di uno, come già era successo ai due olandesi. Marco e Paul vanno quindi alla ricerca di un gommista seguendo il consiglio di un passante: la cosiddetta officina è la porta di una casa all’interno della quale sono ammassati fili elettrici, bulloni e ferrame di ogni tipo. Il meccanico, una specie di zio Jessie nero con salopette a torso nudo, è intento a segare un telaio di bicicletta, circondato da altri tre personaggi che dispensano preziosi consigli. La situazione è tragicomica: prima cerca di estrarre il chiodo con delle grosse pinze, rompendolo dentro la ruota, poi passa ad uno spuntone, e infine decide di spingerlo per poter riparare la gomma.

Riusciamo quindi a partire in direzione del parco Alejandro de Humboldt, non così sicuri di farcela visto la riparazione precaria e la strada dissestata. Arrivati a destinazione conosciamo la guida che ci accompagnerà per tutta la giornata: è un ragazzo molto gentile, disponibile e preparato. In particolare ci spiega come è nato il parco e come da allora (circa 15 anni) si stia educando la popolazione locale al rispetto della natura e della biodiversità. Il traguardo più importante raggiunto finora è la totale eliminazione di fertilizzanti e prodotti chimici a favore di soluzioni ecocompatibili.

La passeggiata non è troppo impegnativa e lungo il percorso approfittiamo anche del passaggio di un carretto guidato da Miguel e trainato dai buoi Polvorin e Azabache, istituzioni locali. Il parco nazionale Alejandro de Humboldt è un parco agricolo dove i campesinos vivono e lavorano. Li incontriamo in vari punti e per la prima volta abbiamo l’occasione di mangiare il frutto del cacao, offertoci da uno di loro.  Il percorso attraversa coltivazioni di frutta tropicale mescolate alla vegetazione spontanea della foresta pluviale. Ci sentiamo un po’ i protagonisti dei film di Indiana Jones, ci manca soltanto il machete per farci strada nella vegetazione! Il sentiero si arrampica sulla collina da cui godiamo di una vista spettacolare e il rientro si fa arduo a causa della discesa sulle umide pietre argillose. La culata è assicurata, a meno di non aggrapparsi alle liane ai bordi del sentiero.

A fine giornata andiamo anche sul mare per provare ad avvistare i lamantini che vivono nella baia. Sebbene siano enormi, quattro metri di lunghezza, è difficile avvistare queste specie di tricheco goffo e simpatico, perché in tutta l’isola ne sono presenti circa cinquanta esemplari, di cui solo cinque o sei in questa zona. Non siamo infatti così fortunati da riuscire a vederli, e dopotutto non possiamo fermarci molto a lungo perché ormai il tempo a disposizione è finito: bisogna ripartire per evitare di guidare dopo il tramonto. In compenso sulle piante li attorno troviamo le famose polymitas, lumachine di terra colorate che si trovano solo a Baracoa! Anche questa è una specie protetta che rischia l’estinzione a causa della produzione di collanine per turisti.

A cena seguiamo il consiglio di due turisti e andiamo al paladar “El Poeta”. Pablo, il padrone di casa, ci intrattiene offrendoci rum e succo di canna da zucchero spremuto direttamente in bocca e soprattutto ci sorprende con un regalo decisamente inaspettato: una palla (bola) di cacao pressato a mano. Ci spiega che servirà per preparare una bevanda afrodisiaca, il chocorote. Che dopotutto è una cioccolata calda. Qui assaggiamo altri piatti della tradizione baracoesa: i tetì, pesciolini minuscoli appena nati fritti con erbette e limone e quelle che chiamano vongole ma che in realtà sono più simili a capesante. La cucina di Baracoa ancora una volta ci sorprende, la varietà dei piatti è infinita rispetto alla classica comida criolla.

Salutiamo Paul e Coby, forse li incontreremo di nuovo a Remedios per Natale.